Nel momento in cui si parla di nuovi modelli turistici o di gestione complicata di quelli vecchi l’ennesimo interessante spunto di Roberta Milano porta all’attenzione un articolo di ADNKRONOS “E’ boom per il turismo enogastronomico” nel quale si evidenzia come
“In Italia nel 2017 le presenze motivate dal turismo enogastronomico sono state oltre 110 milioni, il doppio rispetto al 2016, e la loro spesa ha superato i 10 miliardi. Inoltre, tra le attività più praticate nel corso della vacanza da tutti i turisti, oltre il 13% sono legate a degustazioni di prodotti enogastronomici locali, mentre l’8,6% effettua acquisti di prodotti artigianali ed enogastronomici tipici del territorio.”
L’impatto di ciò che rappresenta il cibo nella motivazione di viaggio e nell’esperienza stessa è stato forse spesso intuito ma mai strutturato in maniera decisa e organizzata.
A BTO2016 con Alessandra Guigoni abbiamo provato a capire in “Non chiamatelo solo food: viaggio dal gastroanonimato alla food experience” come il cibo sia un fattore di esperienza determinante per la riuscita di una vacanza.
Raccontavamo come
C’era una volta il menù turistico, un concentrato di stereotipi e luoghi comuni gastronomici che alimentava il gastro-anonimato: a tavola se il turista chiudeva gli occhi e assaggiava ciò che aveva nel piatto poteva trovarsi ad Alghero come a Milano, ad Avellino come a Trieste.
L’assaggio del territorio, della sua storia e cultura agroalimentare, era roba per pochi eletti, illuminati o con la guida Michelin sotto braccio.
Ma oggi, e ancor di più domani, il turista, qualsiasi sia il motivo e la destinazione del suo viaggio, vuole ‘mangiare come un locale’ degustare i prodotti del posto, assaggiare l’autenticità, assaporare l’ospitalità indigena a tavola, e avere la netta sensazione di aver vissuto un’esperienza immersiva, totalizzante e indimenticabile.
La foodiscovery è il viaggio dell’eroe, che attraversando mondi e prove, giunto alla fine del suo nostos può gustare l’elisir, sia un Barolo o un Cannonau, magari in un locale stiloso, facendosi un selfie con lo chefstar di turno.
Ed è anche la nostalgia alimentare, un concept antropologico, che fa sì che il turista torni anno dopo anno sul luogo del delitto culinario, per ripetere quella food experience che coinvolge attivamente tutti e 5 i sensi ed è quindi mediamente più intensa di qualsiasi altra esperienza di viaggio.
Mettere le mani in pasta, imparare facendo, divertendosi imparando, degustare ed imparare, mangiare sostenibile, verde, responsabile, mangiare come i locali ma anche mangiare sociale, sentendosi parte di una comunità, ricercare locali estremi, inarrivabili, semi segreti (come la celebre Soho secret tea room a Londra), cercare una ristorazione personalizzata, su misura (alcuni ristoranti si chiamano come sartorie, Asola, Sarti del gusto, non a caso) fanno parte dei tanti trend, diversi quanto le tipologie di turista, anzi di flaneur dell’esperienza enogastronomica.
Un turista infatti vive per tre volte al giorno il suo rapporto con il cibo e viverlo male diventa uno dei peggiori ricordi della sua vacanza. Ecco perché la scelta di destinazioni dove “si mangia bene” diventa un fattore di scelta prima, di maggior gratificazione durante e di piacevole ricordo e condivisione anche dopo.
L’italia ha un rapporto complicato con il cibo: una ricchezza e varietà eno gastronomica di valore inestimabile, contaminata continuamente da culture e innovazioni spesso contrasta con una offerta non all’altezza della sua potenzialità.
Assistiamo infatti alla globalizzazione del cibo offerto ai turisti, con centri storici invasi da un gastro anonimato scadente e non rappresentativo che svilisce l’esperienza rendendola comparsa rispetto agli altri attori attrattori quando addirittura non rovina l’esperienza stessa.
Anche nella ricezione troviamo attenzione maniacale in aspetti irrilevanti dell’accoglienza e abissi di sciatteria in prime colazioni industriali con prodotti preconfezionati e dal sapore uguale in tutto il mondo.
Il cibo è passato dal rappresentare il mero valore nutrizionale del dopo guerra a quello di momento di condivisione e piacere, scoperta, appagamento interiore lasciando al valore nutrizionale un aspetto importante più per la qualità degli ingredienti e per la cura della preparazione che per la quantità.
Ecco, in un modello in cui la quantità viene ritenuta poco appagante in gran parte del pianeta ci ritroviamo invece a voler “sfamare” i turisti più che invece a coinvolgerli in un percorso di conoscenza eno gastronomico esperienziale.
Questo processo non si può pensare di risolverlo con la creazione di pacchetti turistici per turisti eno gastronomici (che tra l’altro sono sempre più presenti e di qualità) ma con un processo culturale importante nel sensibilizzare tutti gli attori della filiera (dal produttore a chi serve il cibo) nel diventare ambasciatori della qualità del prodotto eno gastronomico.
Iniziando a usare ingredienti di qualità tracciata, spiegandone la provenienza e il perché siano speciali, preparandoli con l’attenzione che meritano (spesso un buon prodotto viene devastato da una preparazione disastrosa), proponendo degustazioni di qualità e non bacinelle di prodotto.
Il turista attento ama poter entrare in vero contatto con i luoghi: se non è quel tipo di turista forse non è il turista che fa per noi.
Come raccontavo in questo post sull’ overtourism “Il Turismo non è un diritto.” sulla necessità di “Creare un prodotto, cercare mercati di qualità, avere pazienza.”
Siamo a un bivio: continuare a rimanere la dignitosa trattoria/pizzeria del mondo turistico o provare a diventare il ristorante stellato.
Dipende solo da noi.
Per chi vuole approfondire l’intervento a BTO2016 con Alessandra Guigoni ““Non chiamatelo solo food: viaggio dal gastroanonimato alla food experience” con Alessandra Guigoni”
Video dell’intervento (30 novembre 2016)